IL VINO DELL'ANTICA ROMA: LO SVILUPPO DELLA VITICULTURA

Quando Roma finalmente poté vantarsi del nome di "capitale del mondo", la viticoltura aveva già alle sue spalle una lunga storia…

Durante il regno di Augusto tuttavia, viti e vini  poterono godere di maggiori cure e di maggior diffusione e prestigio. In Italia nuove tecniche e nuovi vitigni vennero importati, soprattutto dalla Grecia.

Con l'intento di incentivare la rinascita di un ceto medio di agricoltore, grazie alla stabilità della situazione politica, vennero assegnate delle terre ai soldati veterani che durante il lungo periodo di guerra erano stati lontani dalle campagne: viticoltura ed enologia iniziano a rappresnetare due aspetti importanti per la vita economica e sociale di questo periodo.

Grandi nomi latini si avvicendano e si confrontano nella composizione di trattati di agricoltura, da Catone a Varrone per giungere, nell'epoca più fiorente dell'impero a Virgilio e soprattutto a Lucio Moderato Columella che a osservazioni sui metodi di produzione del vino affianca alle istruzioni tecniche per la coltivazione della vita.

Columella

Columella sottolinea, sostenuto da calcoli precisi e dettagliati, i vantaggi economici che può offrire un vigneto "per chiunque sappia unire la diligenza alla scienza".

Columella distingue fra uve da tavola e uve da vino e nella sua distinzione divide gerarchicamente queste ultime in tre gruppi, a seconda del vino che se ne ottiene. Le più pregiate uve italiche erano le Aminee, che erano coltivati in Sicilia e in Campania si ottenevano l'Amineo, il Lucano, il Murgentino.

Pare che le Aminee fossero impiegate anche per la produzione Falerno. Nello stesso gruppo c'erano poi le uve etrusche molto dolci, chiamate Apianae perché attiravano le api, e le nobili uve Eugeniae dei colli Albani. Molti altri vitigni, considerati di inferiore seppure buona qualità, erano conosciuti e coltivati in diverse zone dell'Italia.

Nel suo trattato "De Re Rustica", Columella suggeriva per ogni vitigno il terreno più adatto e consigliava di impiantare varietà diverse e di tenerle separate al fine di ottenere un vino più pregiato.

Secondo gli scritti di Columella la vendemmia si effettuava del mese di agosto fino a novembre, con la piena maturazione delle uve. Il controllo della maturità si basava sul gusto degli acini, sulla struttura dei grappoli e soprattutto dal colore scuro dei vinaccioli.

Le uve erano pigiate nel calcatorium ed erano torchiate nel turcularium, quindi il mosto veniva raccolto e trasferito per la fermentazione nei dolia.

Il mustum lixivium era il primo mosto che usciva spontaneamente per la compressione delle uve. Mescolato al miele questo mosto veniva utilizzato per preparare il mulsum, che veniva servito come aperitivo.

Dalla ulteriore torchiatura delle vinacce, si ottenevano i lora, vinelli da consumarsi entro l'anno, destinati più che altro agli schiavi ed alle classi inferiori. Si sfruttava inoltre il tannino dei vinaccioli impiegandolo per usi medicinali.

Il vino invecchiato era estremamente apprezzato a Roma. Un vino come il Falerno non si beveva prima dei dieci anni di invecchiamento, i vini di Sorrento non prima dei venticinque e non era difficile veder consumare vini con più di cent'anni di invecchiamento.

Durante l'invecchiamento i vini erano tenuti nel fumarium, un locale della apoteca, che fungeva da magazzino e si trovava in alto nella casa. Qui giungevano i fumi degli usi domestici. Questi, secondo Columella, avrebbero agito favorevolmente sul processo di invecchiamento.

Per correggere i vini un po' deboli o con gusti asprigni o che parevano non conservarsi, i Romani ricorrevano al mosto concentrato per ebollizione.

Erano impiegate anche operazioni quali la gessatura e la salatura dei mosti, nonché l'impiego di coadiuvanti, quali argilla, polvere di marmo, albume, latte di capra, bacche di mirtillo, resine e sostanze aromatiche e medicinali. 

Vini medicinali e vini picata erano molto diffusi. I vini picata erano trattati con pece ottenuta da resine di conifere e profumati con mirra.

I vini medicinali erano il risultato di moltissime ricette che prevedevano l'infusione nei mosti di diverse parti di piante ritenute medicamentose.

Virgilio

Virgilio nutre una particolare sensibilità nei confronti della natura. Questa inclinazione è già presente nelle "Bucoliche", tuttavia è nelle "Georgiche" che si esprime compiutamente.

I quattro libri delle "Georgiche" parlano della coltivazione dei campi, della coltura degli alberi, dell'allevamento del bestiame e dell'apicoltura. Pur essendo esposto in forma didascalica, il contenuto di quest'opera non si può facilmente paragonare ad altre opere che nel campo dell'istruzione agraria furono ben più efficaci ed esaurienti. Quest'opera infatti non è un vero e proprio manuale di agricoltura, ma una celebrazione della natura.

Un libro rivolto così sinceramente all'uso pratico avrebbe potuto essere scritto in prosa ed avrebbe dovuto rivolgersi a contenuti più ampi e dettagliati.

Ma Virgilio è un poeta, non un agronomo. Egli stesso dice nella sua dedica a Mecenate: " Io non desidero abbracciare tutto nei miei versi: neppure se avessi cento lingue e cento bocche e una voce d'acciaio. E tu stammi vicino e insieme a me percorri la fatica intrapresa."

Il secondo libro delle "Georgiche" inizia con l'espresso intento di cantare Bacco e attraverso lui i pampini autunnali e la vendemmia che spumeggia nei tini.

Virgilio invita il padre Leneo, così era anche noto Bacco, a togliersi i costumi e a tingere con lui le gambe nude nel mosto nuovo. Con quest'immagine si viene introdotti nell'argomento che domina tutto il libro.

Nella parte che riguarda i vitigni, Virgilio accosta quelli italiani ai celebri vitigni della Grecia. Il messaggio insito in questi paragoni si legge chiaramente: i frutti della vite non sono gli stessi dappertutto, c'è uva e uva, c'è vino e vino, ma l'uva e i vini dell'Italia non sono secondi a nessuno!

La vendemmia che pende dai nostri alberi non è uguale a quella che pende a Lesbo, dai tralci di Metimne, ed elenca il poeta:

"Ci sono le vigne di Taso, ci sono le uve di Marea, bianche,

s'addicono queste a terreni grassi, quelle a terre più fini;

e la psitia migliore per il passito e il lageo leggero,

che alla fine fa barcollare e impaccia la lingua,

le uve purpuree e quelle precoci, e come ti potrò cantare

o Retica? Però non sfidare le cantine di Falerno!

Vi sono anche le viti aminee, vini robustissimi,

a cui cedono il passo quello di Tmolo e persino il Faneo, re dei vini;

e l'Argitide, quella più piccola, con cui nessun altra può rivaleggiare

o per quantità di succo o per durata di anni.

Certo non io ti trascurerò o Rodia, gradita agli dei e alle mense,

né te o Bumasto, dai grappoli rigonfi!"

Virgilio continua dicendo che le specie e i nomi dei vitigni e dei vini sono così numerosi che non si possono citare tutti, né si può indicare il numero.

Ogni specie richiede una particolare cura ed un particolare terreno. Il poeta offre a riguardo molti suggerimenti sulla piantagione e sui lavori richiesti dalla vite, dalla scelta del terreno alla zappatura, alla preparazione dei diversi sostegni, alla potatura e alla protezione dagli animali selvatici.

Proprio perché spesso compie il misfatto di rosicchiare le viti, spiega Virgilio, viene immolato un caprone a Bacco durante le feste in suo onore.

Il vino è anche la bevanda sacra dei sacrifici, il mezzo che favorisce il contatto con gli dei. Alla vista della costa italiana che si avvicina, il vecchio Anchise invoca protezione agli dei innalzando un grande calice antico pieno di puro vino.

Nell'Eneide" il vino è anche presente alla comparsa del serpente, simboleggiante i sette anni di peregrinazioni che dovranno affrontare i troiani per raggiungere la loro meta.

Il vino si trova ancora nel momento in cui Enea vede realizzarsi le profezie e si rende conto di essere finalmente giunto dove lo conduceva il destino:

 

"Ora libate a Giove con le coppe,

invocate pregando il padre Anchise,

e ancor ponete sulle mense il vino!"

Il vino nell'Eneide" viene associato ai grandi dolori e si accenna al suo potere di condurre oltre la ragione. Tuttavia il significato più ricorrente che viene attribuito al vino è un significato sacrale.